|  PANORAMA ETRUSCO Gennaio 1970 Anno III - n. 1
 
 Personaggi
 PARIDE PASCUCCI
 
 
 Nel crogiuolo delle amarezze, che gli affluivano
 al cuore dal soffrire della povera gente
 nelle maremme velenose e avare,
 raggiunse con «tele amorose»
 altezze liriche di rara bellezza
 
 di
 ALFIO CAVOLI
 
 
  aride
                      Pascucci nasce a Manciano il 30 settembre 1866. Nel 1882
                      si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Siena, ma la
                      frequenta saltuariamente per mancanza di mezzi. Nel 1896,
                      con il bozzetto « Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso
                      terrestre », vince l'alunnato Biringucci. Nel 1901
                      partecipa alla LXXI Esposizione di Belle Arti di Roma con
                      alcuni apprezzati acquarelli. In questa circostanza
                      stringe amicizia con un gruppo di giovani e affermati
                      artisti fra cui Mancini, Collivadino e Nomellini. Subisce
                      l'influsso delle nuove correnti pittoriche e, soprattutto,
                      del movimento promosso dai Macchiatoli. Nel 1909 appare la
                      sua prima opera veramente importante, un dipinto di grandi
                      dimensioni. Si tratta del quadro « Gli apostoli » che,
                      esposto in una mostra romana, riscuote il consenso unanime
                      della critica più qualificata e viene acquistato dalla
                      Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Dal 1909 al 1917 lavora con Cesare Maccari. I due artisti
                      decorano la cupola della chiesa di Loreto e affrescano
                      l'aula di Cassazione del Palazzo di Giustizia a Roma. Nel
                      1920, il Pascucci decora la cattedrale di Nardò, nel 1924
                      vince il concorso Ussi con il dipinto «Eroe che ritorna»,
                      nel 1925 ottiene il primo premio alla Società delle Belle
                      Arti di Firenze con l'opera «Ora di riposo», nel 1929
                      vince di nuovo il premio Ussi con la famosa tela «Il
                      venerdì santo», il più celebrato dei suoi quadri.
 Dal 1930 al 1939 cade nel silenzio, poi torna a dipingere
                      assiduamente per offrire alcune opere di rara efficacia
                      come «La siesta». L'ultimo suo lavoro, «Baldoria
                      carnevalesca», risale al 1940. Il Pascucci muore a
                      Manciano il 2 luglio 1954.
 Fra le sue tele più significative, oltre a quelle già
                      citate, possiamo elencare le seguenti: «Morte di Omberto
                      degli Aldobrandeschi», «Vergogne sociali», «Eroi di
                      Maremma», «I politicanti», «Bizzoco o asceta»,
                      «Meditazione o ritratto di Maria», «La lezione del nonno»,
                      «Ritratto di Montechiari», «Ritratto di Niccolai», «La
                      sfogliatura del granturco», «Il profeta», «La frasca»,
                      «Busto di ragazza», «Testa di vecchio», «Ritratto di
                      giovane popolana», «L'oliveto», e moltissime altre.
 La critica considera di notevole importanza il gruppo di
                      dipinti appartenenti alle «Scene maremmane» e i
                      numerosissimi «disegni e acquarelli della vita militare».
 
 
  * * * Paride Pascucci, a causa del suo carattere estremamente
                    riservato, della sua naturale tendenza alla solitudine più
                    assoluta, che divenne quasi claustrale negli anni della
                    maturità artistica, non raggiunse quella vasta notorietà che
                    avrebbe meritato. È risaputo come il pittore mancianese, per
                    una forma di eccessiva umiltà e di spiccata inclinazione
                    verso le cose semplici della sua semplice ed umile terra
                    maremmana, che esercitavano su di lui un fascino
                    irresistibile, evitasse persino gli incontri con le alte
                    personalità desiderose di avvicinarlo e di conoscerlo,
                    preferendo restare fra le vecchie mura del natio paese, nel
                    chiuso del proprio studio o in cordiale conversazione con la
                    buona gente di campagna che costituì sempre il soggetto
                    predominante delle sue opere.
 Prima di accostarsi ai suoi quadri, bisogna vedere il
                    Pascucci in mezzo alle cose della sua terra, bisogna
                    introdursi con lui nelle anguste viuzze del suo paese, ora
                    invase dai tini e dalle botti per l'imminente vendemmia, ora
                    animate dalla loquacità delle donnette e dalla vivacità dei
                    ragazzi intenti alla «sfogliatura del granturco». Bisogna
                    entrare con lui nel tugurio, all'ora del desinare, quando la
                    polenta fuma sull'umile desco, intorno al quale la famiglia
                    contadina consuma il frugale pasto svogliatamente, e dal
                    volto d'ognuno traspare una profonda tristezza perché «è
                    morta la vacca». E seguire da vicino, come soleva fare
                    l'artista, il quotidiano lavoro dei braccianti, dei
                    vignaioli, dei contadini, esplicato durante il corso delle
                    stagioni, nelle forme più varie e sempre suscitatrici di
                    sensazioni che parlano al cuore con un linguaggio di
                    schietta poesia. Di quella poesia che, quando per il
                    Pascucci correvano gli anni migliori, in senso artistico,
                    era sicuramente più grande e più sentita, perché scaturiva
                    da un mondo piccolissimo, fatto di cose e di abitudini
                    semplici, senza sofisticazioni; da un mondo in cui il duro
                    lavoro, le privazioni, le condizioni generali di vita
                    piuttosto misere, stampavano sui volti dei popolani
                    quell'impronta di mestizia e di umiltà, ma anche di bontà e
                    di sincerità, che l'artista seppe cogliere e fissare
                    genuinamente nelle sue tele.
 Il Pascucci s'innamorò talmente del natio paese, della sua
                    ancora desolata Maremma, da dedicare tutta la sua esistenza
                    a dipingerne gli aspetti più caratteristici e suggestivi. Lo
                    troviamo sempre, come attratto da un richiamo prepotente,
                    nei luoghi in cui la sua gente soffre, prega o lavora e
                    dove, qualche volta, dimentica della sua miseria, si raduna
                    numerosa per trascorrere una serata carnevalesca in
                    allegria. Egli vi entra, in questi ambienti, con il cuore e
                    con l'anima del poeta, subitamente impressionato e commosso
                    fino al punto di non potersene distaccare. E non se ne
                    distaccherà mai.
 Nel quotidiano tragitto fra la sua casa natale e lo studio,
                    situato in una modesta villetta di campagna, in mezzo agli
                    alberi da frutto, alle viti, agli olivi, a diretto contatto
                    con la natura e con i lavoratori della terra, lo
                    sorprenderemo, anche negli ultimi anni della sua esistenza,
                    lungamente e profondamente assorto nella contemplazione
                    della campagna circostante, interessato ad ogni aspetto
                    della vita paesana. Ci sembrerà un uomo diverso da tutti gli
                    altri, da tutti coloro che gli passano vicino. E, infatti,
                    lo è. Nel vecchio cappotto dal bavero rialzato, con in testa
                    il cappello dalle falde rovesciate, egli è lì, affacciato al
                    muricciolo che domina il campestre panorama, tutto preso e
                    conquistato da quelle vedute agresti tanto care al suo
                    cuore.
 Forse i suoi pensieri sono velati di tristezza, perché il
                    tramonto della sua tormentata esistenza si avvicina
                    irreparabilmente. È amaro, per il vecchio artista, il
                    pensiero di doversi separare da tutto ciò che fu per lui
                    esclusiva ragione di vita. E gli ultimi anni saranno assai
                    tristi.
 Morirà il 2 luglio 1954, nella casa di Via Costa Nuova, dove
                    aveva visto la luce alle ore sette antimeridiane del 30
                    settembre 1866, povero come nacque, ma lasciando un ricordo
                    indelebile con le sue opere dal contenuto profondamente
                    umano che cantano la poesia di questa generosa terra di
                    Maremma.
 
 «In occasione del primo centenario della nascita del
                      pittore Paride Pascucci si è aperta a Manciano, in
                      provincia di Grosseto, una mostra antologica del grande
                      artista maremmano. La rassegna comprende una sessantina di
                      opere che vanno dal periodo giovanile a quello della piena
                      maturità artistica del pittore scomparso dodici anni fa.
                      In molte tele del Pascucci rivive la Maremma tradizionale,
                      quella ormai scomparsa dei butteri e dei pastori. Alcune
                      opere rivelano in Paride Pascucci un legame ideologico con
                      i grandi maestri contemporanei. Per questa sua comunanza
                      di idee soprattutto con Giovanni Fattori, Paride Pascucci
                      è considerato come l'ultimo dei «macchiatoli».
 
 Così la Televisione, in «Cronache italiane», la sera
                    del 27 settembre 1966. Sul video trascorse una sequenza di
                    dipinti fra i più significativi dell'opera pascucciana: Eroi
                    di Maremma, Meditazione, Asceta, L'oliveto, La sfogliatura
                    del granturco, Mietitura. In queste poche opere fortemente
                    sentite e sofferte c'è la sintesi di uno sconfinato
                    innamoramento durato per tutto l'arco di una lunga esistenza
                    e, al tempo stesso, vi sono gli elementi responsabili di
                    quell'isolamento in cui l'artista si chiuse per trovarsi
                    sempre a diretto e indisturbato contatto con l'ambiente e
                    l'umanità che soli riuscivano a suscitargli le più vive
                    emozioni, a farlo trasalire, a guidargli la mano su «tele
                    amorose».
 Nel crogiuolo delle amarezze che gli affluivano al cuore dal
                    soffrire della sua gente nelle maremme velenose e avare, la
                    sua pura arte ostinatamente attenta a qualunque tema sociale
                    anche quando si piegava ai suggerimenti e alle suggestività
                    della natura, raggiunse altezze liriche di rara bellezza. Se
                    ne avvide subito la critica più perspicace. Vennero le
                    amicizie di Pio Collivadino, di Plinio Nomellini, di Cesare
                    Maccari. Vennero i premi (due volte vincitore del concorso
                    Ussi) e le onorificenze (medaglia d'argento della pubblica
                    istruzione, membro della Pontificia
                    Accademia dei Virtuosi). I suoi dipinti conobbero ben presto
                    gli onori delle migliori collezioni pubbliche e private, a
                    cominciare dalla Galleria d'Arte Moderna di Roma che
                    acquistò Gli apostoli**,
                    un lavoro di grandi dimensioni e di grande impegno
                    artistico. Fu proprio questa tela che lo fece entrare in
                    relazione di amicizia con Antonio Mancini e lo indusse a
                    mostrare l'estrema misura di quel suo carattere schivo e
                    talvolta scontroso a causa del quale si guadagnò
                    l'appellativo di «Orso maremmano».
 I due fatti che seguono, tratti dall'aneddotica del pittore
                    mancianese, accaddero in queste circostanze.
 Nel 1909, Paride Pascucci si reca a Roma con l'intenzione di
                    esporre il grande dipinto Gli apostoli in una importante
                    rassegna artistica. Ma al momento di liberarlo
                    dall'imballaggio si verifica un gravissimo inconveniente: il
                    colore ancora fresco, si è sparso per tutta la tela
                    deturpando le figure del folto gruppo di personaggi che vi
                    sono rappresentati. Costernazione del pittore. Per fortuna,
                    è presente alla scena Antonio Mancini. Il grande artista di
                    Albano Laziale, la cui originalità di espressione ebbe un
                    certo peso anche di carattere culturale nell'ambito
                    dell'arte europea, trova subito parole di consolazione per
                    il Pascucci e gli mette a disposizione il proprio studio pel
                    provvedere ai necessari ritocchi. L'indomani, il quadro
                    riscuote i più vasti consensi e diversi giornali della
                    Capitale ne parlano come di una grossa rivelazione.
 Anche Vittorio Emanuele III, presente all'inaugurazione, si
                    sofferma ammirato davanti all'imponente tela del mancianese.
 Poi esprime il desiderio di conoscerne l'autore. Ma questi,
                    non riuscendo a controllare l'innata timidezza, preferisce
                    restare nell'incognito. Avuto sentore del regale
                    interessamento, abbandona i locali della mostra e, quel ch'è
                    peggio, l'ambiente artistico romano in cui era stato
                    invitato a restare.
 Se ne tornò a Manciano per vivere e lavorare, come si è
                    detto, fra la sua gente e per la sua gente. Ne uscì soltanto
                    In occasione dei vari concorsi a cui partecipò con successo,
                    e quando si trattò di affrescare prima con Cesare Maccari la
                    cupola della chiesa di Loreto, poi da solo la cattedrale di
                    Nardò.
 Morì molto vecchio, quasi alla soglia dei novant'anni,
                    esprimendo sempre un solo, accorato rimpianto: quello di
                    doversi distaccare dalla sua terra di Maremma, che gli era
                    entrata nel sangue come una droga irrinunciabile, e di non
                    poter più fissare nelle tele, come dice l'epigrafe dettata
                    da Alfonso Giuliani in occasione del centenario,  «la
                    spoglia umanità degli umili tenacemente curvi su una terra
                    sdegnosa nella scura dolente epopea che schiuse al seme
                    della vita il seno amaro delle solitudini».
 Oggi, più che mai, le opere di Paride Pascucci sono
                    ricercate e apprezzate. È la prova più lampante della loro
                    grande validità artistica.
 
 
 *Il
                    presente articolo è scelto fra le decine dedicate, prima e
                    dopo, a Paride Pascucci nelle più svariate occasioni e nelle
                    pagine delle più diverse testate da Alfio Cavoli che, non
                    solo come scrittore (vedi anche Paride Pascucci), ma, e soprattutto, in
                    qualità di assessore alla cultura del Comune di Manciano ha
                    costantemente promosso, nei quindici anni di incarico, molte
                    iniziative atte a far raggiungere la meritata notorietà alle
                    opere dell'artista a lui contemporaneo fino a riuscire
                    nell'intento di proporre le disponibili sul territorio in
                    una pinacoteca. La Pinacoteca Aldi-Pascucci si
                    poteva visitare a Manciano in via Corsini, 5 nel Palazzo
                    Nardelli all'interno del quale coesisteva con il Museo
                      di Preistoria e Protostoria della valle del fiume Fiora
                    – occupante il piano superiore – in un nucleo espositivo di
                    vero pregio artistico, archeologico e storico. Gli
                    amministratori intervenuti successivamente alla guida del
                    Comune l'hanno smantellata.
 
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                    Il dipinto a olio Gli apostoli, nell'occasione
                    narrata da Alfio Cavoli acquistato dalla Galleria d'Arte
                      Moderna di Roma, è attualmente esposto nella chiesa
                    di San Leonardo a Manciano pur rimanendo di
                    proprietà dell'istituzione capitolina.
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