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Altri scritti
Manciano Un territorio oltre
Intervento di Alfio Cavoli
Manciano, Cinema moderno, 3 ottobre 2002


Manciano Un territorio oltre
Maurizio Cont, Emilio Guariglia, Fabio Detti, Carlo Casi, Cristiano Bellezzi, Elena Guerrini, Marco Tisi, Cesare Moroni, «Manciano Un territorio oltre», Cesare Moroni Editore, 2002

i prego vivamen-te di scusarmi se per consentirvi di capire il senso sia di questa manifestazione – nel contesto della quale mi è stato gentilmente dedicato un omaggio ("Territori anticipati") – sia della qualifica di pioniere di cui – insieme ad altri – sono stato gratificato, mi trovo costretto a parlare anche un po' di me stesso, oltre che del libro «Manciano un territorio oltre». Lo faccio, credetemi, violentando la mia indole che fortemente si ribella e, dunque, con tutto l'imbarazzo che ne deriva.

Negli anni Cinquanta del secolo scorso – dunque più di cinquant'anni fa – già mi dilettavo a coltivare aspirazioni ideali che non sembravano suscettibili di realizzazione, ossia le utopie. Cominciò da lì a prendere forza e consistenza il mio temperamento d'inguaribile rompiscatole, che con la vecchiaia è diventato probabilmente insopportabile. Lo riconosco. E spesso non mi sottraggo al dovere di ammetterlo, dispiacendomi tuttavia di questa abdicazione dovuta al fatto – lo si creda o no – che sono un essere mite. Pensavo, come molti giovani fanno e hanno sempre fatto, di poter cambiare il mondo; oppure, nella peggiore delle ipotesi, di convincere la nostra ancora rude gente di Maremma a distogliere talvolta lo sguardo dalle cose meramente materiali per volgerlo a quei territori dello scibile del tutto ignorati o poco frequentati che i vocabolari contraddistinguono con parole semplicissime come cultura, arte, archeologia, pinacoteche, biblioteche, musei e via di questo passo. Mi sarei accorto di essere un illuso una ventina d'anni più tardi, quando – entrato in "politica", come indipendente di sinistra – ogni volta che questi vocaboli pronunciavo con serafica convinzione, qualche collega emetteva immancabilmente sentenze di aperta contrarietà. Ricordo il feroce disprezzo per i cocci che taluno mi esprimeva pressoché ossessivamente, quando mi affannavo – per fortuna con la solidarietà dei Sindaci dai quali avevo avuto la delega di assessore – a costituire il Museo di Preistoria e Protostoria della valle del fiume Fiora. Mi prodigherò nelle debite ricerche per convincermi del contrario, ma credo proprio di poter dire – mi si perdoni la necessaria immodestia – che la locuzione "turismo culturale in Maremma" fu una mia ardita invenzione di quegli anni lontani. E volete sapere per quale motivo? Perché quando, con il coraggio che mi derivava dalla totale incoscienza, non avevo il ritegno di non esternarla nelle riunioni provinciali e perfino regionali, c'era sempre qualcuno che sgranava gli occhi stupefatto, facendo capire ai vicini di seduta, con eloquenti segni del viso, come mi considerasse completamente fuori di cervello, delirante, pazzo da legare. Questo è quanto. E vi prego di credere che le cose, allora, stavano in questi termini. Ma guardate un po', mi vien fatto di eclamare! Oggigiorno si proclamano tutti paladini del turismo culturale, essendosi finalmente ricreduti, avendo capito che non si trattava di una bestemmia, di una locuzione blasfema. Con qualche decennio di ritardo, comunque. Perché evidentemente un buon numero di maremmani del tempo ormai passato erano incapaci di afferrare i concetti con la dovuta prontezza. Non a caso, il mio compianto amico Morbello Vergari, sceso da Santa Caterina di Roccalbegna per fare il poeta-contadino in quel di Roselle, era solito dire, con un pizzico d'ironia, ma non troppo: Noialtri maremmani siamo persone molto, ma molto intelligenti. Le cose, dopo due, al massimo tre ore, si capiscono sùbito! Proprio così diceva. Chissà come si sarebbe espresso, Morbello, se avesse saputo che molti, fra i così detti amministratori illuminati, hanno impiegato quattro decenni per capire che il turismo culturale in Maremma non era un'utopia? La situazione che vi ho rappresentato era tipica degli anni Sessanta-Settanta. Ma le mie preoccupazioni per le sorti della Maremma risalgono a un'epoca molto anteriore e possono essere testimoniate – nero su bianco – dai tanti articoli che scrissi per "Il Telegrafo" di Livorno, con il quale cominciai a collaborare nell'ormai lontanissimo 1949, e in modo particolare, più tardi, dalla lettera – pubblicata da quel giornale il 24 aprile 1960 – diretta all'allora direttore Lucio de Caro che portava il suo cane lupo a bagnarsi nelle acque termali di Saturnia per farlo guarire da una serie di acciacchi. Il titolo suonava così «Saturnia e Sovana paesi abbandonati». Era un grido d'allarme che lanciavo a chi di dovere per la salvezza di queste due antichissime località emblematiche della Bassa Maremma, la seconda delle quali, in quel momento, sembrava proprio che non potesse farcela a recuperare il soffio della vita, a scongiurare il pericolo di concludere la sua esistenza in un ammasso allucinante di macerie, dalle quali era già diffusamente costellata, per i muri e i tetti delle case che cedevano alle vicissitudini del tempo e ai danni della lunga incuria. Ci si arrivava – a Sovana – percorrendo una strada indegna di questo nome, scomposto letto, come sembrava, di un fosso o di un torrente: la strada di una città agonizzante, accanto a quella dei morti avviluppata nel disordine della vegetazione, quasi come quando vi giunse il pittore londinese Ainsley, più di cent'anni prima, trovandola sepolta dagli sterpi e dalle felci. Sui pochi resti dell'ammattonato viario e ai piedi delle mal ridotte abitazioni cresceva indisturbata l'erba dei luoghi abbandonati. Qualche persona anziana faceva capolino dagli usci socchiusi, triste, amareggiata da una vita grama, incredula che qualche forestiero potesse ancora visitare quella città profondamente disperata. Era il tempo in cui di un paese deserto si continuava a dire: «Sembra Sovana»; nella convinzione, poi, che Sovana non potesse risorgere.
Un po' meglio sbarcava il lunario la nostra Saturnia, anche se non brillava per l'accoglienza del raro forestiero, priva com'era di locali di ristoro e di soggiorno, se si toglie una trattoria ricavata, mi pare, in una casa di civile abitazione. Così come non brillavano le Terme – gestite prima dal Passalacqua, poi da Osio, con Arturo Nensi in veste di factotum – che altro non erano se non il silente e segreto rifugio dell'inseparabile coppia Faruk – Capece Minutolo, di qualche artista e scrittore (Mino Maccari, Giuseppe Cesetti, Mario Soldati), di qualche personalità del cinema e della televisione (Walter Chiari, Anita Ekberg, Angelo Lombardi) e di noi giovani di belle speranze – avevamo trent'anni — che, in virtù della disponibilità di un'automobile – una rara fortuna a quei lumi di luna – vi andavamo quasi ogni giorno per tuffarci in una piscina deserta e per assaporare, in una altrettanto deserta sala da pranzo demodé, le prelibatezze di una cucina maremmana assolutamente degna delle migliori tradizioni. Le strade, poi – tutte indistintamente bianche, sconnesse e polverose (furono asfaltate proprio a cominciare dal 1960) – contribuivano a suscitare sensazioni di desolazione e di abbandono). Come si capisce da queste sommarie reminiscenze, sia Saturnia, sia Sovana – i due più importanti poli di attrazione del nostro territorio, quelli che oggi forniscono ossigeno all'industria del forestiero – erano state rese impotenti dalla situazione di arretratezza in cui versavano. Il turismo culturale che mi azzardavo a preconizzare, sfidando la stupefatta incredulità e la profonda miopia di non pochi pubblici amministratori – esclusi, ripeto, i Sindaci con i quali ebbi il piacere di collaborare – e che dalle nostre parti avrebbe potuto coniugarsi con quello balneare, termale, climatico, era pertanto un'aspirazione chimerica, una sorta di fata Morgana del nostro deserto demografico. Ma qualcosa era necessario inventare. Bisognava far conoscere la Maremma, oltre i suoi non vastissimi confini; di più: oltre il Tevere e l'Arno, dovunque potesse arrivare la voce di chi aveva a cuore il problema. E per fortuna, poco dopo, sarebbero state un buon numero le persone, più private che pubbliche, capaci di rompere il diaframma fra la realtà virtuale e quella effettiva. Per quanto mi riguardava, le peculiarità della nostra terra, che da oltre tre lustri divulgavo sui giornali, cominciai a divulgarle sui libri. Era il 1965. In quell'anno uscì il mio il primo volume – «Uomini, cose e paesi della Maremma» – contemporaneamente a quello di Lilio Niccolai, «Manciano nella storia e nella leggenda». L'anno successivo vide la luce «La Maremma di Tiburzi», salutato da un elzeviro di Carlo Laurenzi sul "Corriere della Sera" e da un buon successo di critica. Quindi, nel 1970, in collaborazione con Lilio Niccolai, licenziai alle stampe «Sapor della mia terra», dove apparve un inedito gruppo di stupende immagini pastorali eseguite negli ultimi anni Venti del Novecento dal fotografo pitiglianese Lorenzo Adolfo Denci nella tenuta di Marsiliana su commissione del marchese Antonio Ciacci che le utilizzò per documentare la sua tesi di laurea. Col passar del tempo i miei lavori diventarono trenta, quaranta; e tutti, nessuno escluso, ad opera di piccoli editori che – legati però a una distribuzione extraregionale e nazionale — portarono lontano la realtà maremmana in tutte le sue componenti: la storia, l'archeologia, l'arte, i monumenti, i personaggi, il folklore, il paesaggio, l'ambiente. E la Maremma se n'accorse. Non fu distratta. Così, nel 1993 volle spontaneamente assegnarmi il "Grifone d'oro", il premio più prestigioso che un maremmano possa ricevere dalla madre terra: un premio assegnato, fra gli altri, a Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, Mario Luzi, Geno Pampaloni, Ildebrando Imberciadori. Un onore grandissimo che mi fa perfino dubitare di esserne degno. «In una trentennale attività di fecondo divulgatore della storia, della geografia e dell'arte della nostra terra, Cavoli ha fatto conoscere in ogni angolo d'Italia le risorse culturali della Maremma». E poi: «A lui è dovuta la consapevolezza, per la cittadinanza, che vivere nel cuore della provincia non ostacola, ma favorisce le reali attitudini e capacità di chi si adopera disinteressatamente per la collettività». Questo scrissero nella motivazione i rappresentanti di quattro dei più autorevoli enti pubblici di Grosseto: l'Amministrazione Provinciale, l'Amministrazione Comunale, l'Azienda di Promozione Turistica e la Pro Loco. E il Sindaco di Grosseto, Loriano Valentini, lodando forse il mio lavoro al di sopra del suo effettivo valore, durante il bel discorso che pronunciò il giorno in cui mi fu materialmente consegnato il premio, disse, fra l'altro: «Il conferimento del "Grifone d'Oro" a Alfio Cavoli vuol significare il giusto riconoscimento del grande contributo che egli, goccia a goccia, ha dato allo scavo di noi stessi, riconducendoci per mano alla soglia della nostra identità sociale e culturale, alla spiegazione delle nostre tradizioni, all'humus fecondo della "maremmanità" [...]. In migliaia di pagine, fatti, cose, personaggi – buoni e cattivi – della nostra terra, le diverse tappe del suo lento progresso si sottraggono agli esaurienti ma aridi canoni della erudizione per farsi, come dicevo, frammenti di "memoria collettiva" e quindi lezione esemplare ed efficace che ci aiuta a capire e a capirci meglio. Che è in fondo il fine massimo che si richiede alla vera cultura».
Alla luce di queste premesse, debbo considerarmi dunque un pioniere? Me lo sto domandando, perché gli autori del bel volume che questa sera presentiamo – Manciano, un territorio oltre – così mi hanno voluto definire – bontà loro – unitamente a molti altri amici imprenditori che questa definizione hanno meritato come me e forse più di me con il loro diuturno, intelligente impegno che mirava a traguardi lontani, ponendo le basi su cui sarebbe sorto, a poco a poco, l'edificio dell'identità maremmana alla quale oggi il turista fa riferimento. Se nel gratificarmi dell'attributo di pioniere si è voluto intendere che, fin dai tempi non prosperi, mi prodigai per promuovere con i miei libri la nostra Maremma, invogliando il forestiero a visitarla e a soggiornarvi, ebbene, sì, un po' pioniere ritengo di esserlo. E perciò non è un merito usurpato. Così come non lo è dagli amici e dalle aziende che nel libro mi fanno compagnia: Bacco e Cerere, Erik Banti, Giuseppe Bernacchi, Caino, Due Cippi da Michele, Pietra Dorata, Comunità Montana delle Colline del Fiora, Fattoria dei Pianetti, Villa Acquaviva, Immobiliare Montemerano. Grazie anche a tutti loro, e ai tantissimi altri che come loro hanno saputo guardare lontano lavorando con serietà e guadagnandosi anche a livello nazionale la stima degli osservatòri turistici e della clientela, la Maremma amara alla quale poc'anzi mi riferivo – in certe pieghe del territorio veramente squallida e desolata – ha potuto compiere un salto di qualità veramente radicale: quello che cinquant'anni or sono era considerato utopico, irrealizzabile. Dobbiamo dire, pertanto, che ce l'abbiamo fatta a uscire dalle sabbie mobili che parevano doverci risucchiare nei loro gorghi. Siamo diventati i cittadini di una terra desiderata e ospitale, dove ambizioni di ulteriore miglioramento – anche culturale – non mancano, capacità imprenditoriali non difettano. E tanto più lo saremo se utilizzeremo al meglio le potenzialità locali, sia pubbliche, sia private; se professionalità come quella di Maurizio Cont – che è stato l'artefice primo di questa e di altre iniziative di successo – o come quella, lasciatemelo dire, dell'Editore Aldo Sara, che ormai da quasi tre anni divulga la Maremma con il mensile "Le Antiche Dogane" e con una collana di libri, continueranno a essere complementari all'azione degli enti locali e delle aziende di ogni categoria nella promozione della nostra terra. Azione che, per quanto riguarda il Comune di Manciano non può non incentrarsi anche nella ricostituzione della Pinacoteca "Aldi-Pascucci", in un rilancio significativo del Museo di Preistoria e Protostoria per ricollegarlo alle istituzioni universitarie dalle quali è stato escluso anche quest'anno (si veda il convegno di preistoria tenuto a Pitigliano e a Valentano), nonché nell'allestimento del Museo Etrusco di Saturnia, la cui istituzione, in accordo con la Soprintendenza Archeologica della Toscana, fu approvata dal Consiglio Comunale nel 1990: tre capisaldi del nostro patrimonio culturale che m'impegnarono – e duramente – per oltre un quindicennio. En passant, mi preme dire che nel 1985 Pitigliano non aveva nemmeno un'istituzione museale. Venne a trovarmi il Cavalier Becherini, ispettore onorario delle Belle Arti, e si sfogò con me per questa grave carenza del suo paese, lodando il nostro. Oggi, Pitigliano di musei ne ha due, più quello della Sinagoga; e un altro esterno – il quarto – è in via di allestimento. Il confronto ci vede dunque perdenti per quattro a uno. E pensare che Pitigliano proprio non avrebbe bisogno di musei per attirare il turista, essendo un museo di per sé. La circostanza induce, credo, a qualche riflessione.
Ma torniamo al discorso interrotto. Perché è giunto il momento di dire grazie a chi ha voluto farmi omaggio – unitamente a Lilio Niccolai – di questa manifestazione. E mi riferisco a Maurizio Cont, ritenendo che l'iniziativa sia partita da lui. Gli sono grato per avermi voluto inserire nella splendida pubblicazione di cui ci occupiamo, nella quale la sapiente e suggestiva iconografia firmata da Marco Tisi e da Cesare Moroni – con i disegni di Maurizio Biserni – si sposa ai testi altrettanto interessanti di Maurizio Cont, Emilio Guariglia, Fabio Detti, Carlo Casi, Cristiano Bellezzi, Elena Guerrini. Il volume – che dedica la sua attenzione anche al Sindaco Galli (di cui approvo incondizionatamente la ferma opposizione all'autostrada collinare) e a Mario Babbanini (da lodare per aver collezionato moltissimi oggetti della cultura contadina allo scopo di garantirne la salvezza) – è veramente bello e prezioso nella sua commistione figurativa che attinge dal passato e dal presente una scelta d'immagini molto suggestive, dove da una parte è possibile trovare il sapore e la struggente poesia del passato, le nostre radici, la nostra memoria; dall'altra i colori, le atmosfere, le geometrie, le architetture di un paesaggio strepitoso, irripetibile, dal quale si capisce perché il forestiero prediliga questa nostra terra e ne rimanga incantato. Sarà certamente uno strumento promozionale di prim'ordine, un invito irrinunciabile a tuffarsi in quest'ultimo paradiso solare e variopinto, lontano dalle ciminiere e dai miasmi delle industrie chimiche, lontano dalle metropoli assediate dal traffico e avvelenate dai gas e dallo smog, lontano dallo stress e da tutte le diavolerie che l'era tecnologica propina con maligna generosità agli italiani e agli stranieri meno fortunati di noi. Oltre a sottolineare con grande efficacia l'eccellente qualità dell'accoglienza che le nostre colline possono offrire a chi voglia soggiornarvi per un periodo più o meno lungo di riposante vacanza, il libro accende davvero i riflettori sul nostro territorio, sul nostro Comune che, essendo il secondo per vastità in Maremma, dopo quello di Grosseto, assomma in sé una serie tale di peculiarità da non temere paragoni. Questo mi ha sempre detto anche l'amico Bruno Modugno, il noto giornalista televisivo di qualche anno fa, il quale, pur frequentando Capalbio per motivi venatori, essendo uno sfegatato seguace di Diana (ora, talvolta, viene a cacciare alle Macchie Alte di Giovanni Detti) è un profondo ammiratore del territorio di Manciano. E torniamo ai ringraziamenti.
Oltre a Cont, esprimo la mia gratitudine a Emilio Guariglia, autore delle molte interviste, compresa quella che mi ha dedicato, ben cogliendo i lati del mio temperamento – più che il mio itinerario umano, sociale e culturale – dopo avermi ascoltato parlare – sfortunato lui -per un buon paio d'ore. Guariglia – le sue pagine, nel volume, sono semplicemente ammirevoli e sarebbe stato giusto porre la loro paternità in maggiore evidenza – è un giovane giornalista coltissimo, di notevole spessore professionale, destinato a mietere i successi che merita e che gli auguro con tutto il cuore. Ringrazio, naturalmente, il Presidente della Provincia Lio Scheggi per averci onorato della sua graditissima presenza, il nostro Sindaco, Rossano Galli, estensore dell'invito e ospitante – ritengo – di questa manifestazione. Così come ringrazio tutte le autorità presenti e il pubblico gentilmente intervenuto. Ma prima di concludere – scusandomi di essere stato prolisso – vorrei sottoporre al giudizio di tutti una semplice considerazione. Sì, è vero, gli anni dell'arretrattezza maremmana sono ormai un lontano ricordo. Grazie alle forze politiche, sociali, imprenditoriali, culturali, la nostra terra ha fatto passi enormi, ha conseguito risultati economici molto significativi, sebbene in alcune aree pedemontane permangano situazioni di stallo e di sofferenza. Tuttavia, ritengo che sia giunto anche il momento di riflettere seriamente su quale sia il limite da non superare per non compromettere in maniera irreparabile l'equilibrio di un territorio che sta alla base del fenomeno turistico da cui deriva l'odierno benessere. Le cronache traboccano di notizie riguardanti scelte edilizie e urbanistiche quanto meno discutibili, perché destinate a deturpare, con colate di cemento e con parcheggi (come quelli di Capalbio – orrendo – e di Massa Marittima) paesaggi e ambienti che hanno in sé qualcosa oserei dire di sacro, d'intoccabile. Ci volle un lungo dibattito, iniziato dallo scrittore Pietro Citati, per impedire che una serie di nuovi edifici occultasse la veduta della Rocca di Montemassi immortalata nel dipinto senese del Guido Riccio. Necropoli una volta stupende – come quella di Sovana – che esalavano ancora l'alito millenario dei nostri più remoti progenitori, sono state fortemente danneggiate, secondo il mio modesto parere, dalla realizzazione di camminamenti e di scalinatelle artificiali, di staccionate, parcheggi e casotti per le biglietterie, tanto da farle sembrare aride botteghe dove si comprano snaturate immagini del passato. Sebbene sia necessario, anzi indispensabile, trovare una soluzione al problema della grande viabilità, suscita non poche apprensioni un'autostrada che devastasse il territorio incomparabile delle nostre colline.
La torre dell'orologio di Manciano Tutto questo, e altro ancora, dovrebbe preoccuparci fortemente, anziché farci dormire sonni tranquilli. Perché la Maremma – e la nostra in particolare – non potrà sopportare illimitati sfregi alla sua bellezza, al suo fascino, ai suoi straordinari caratteri paesaggistici e ambientali che nel nostro libro sono efficacemente rappresentati: tutti elementi per i quali – e soltanto per essi – il turista ci degna della sua presenza e della sua attenzione. In definitiva, questa nostra terra è una sorta di gallina dalle uova d'oro che ci hanno lasciato in eredità i nostri nonni e i nostri padri, dopo averla riscattata dai mali che l'affliggevano con sacrifici e rinunce, sudori e miseria, abnegazione e lacrime.
Non maltrattiamola, dunque, non infieriamo su di lei. Potrebbe sdegnarsi e smetterla di soddisfare le nostre smodate brame di profitto.
Per concludere, traggo dalla memoria un significativo ricordo. Era il 1981. Una gita scolastica ci portò sul Gargano. È bello il Gargano, lo "Sperone d'Italia", con Mattinata, Vieste, la Foresta Umbra, Monte Sant'Angelo. Veramente stupendo. Ma una ragione c'è; ed è questa: commercianti e imprenditori si erano associati da alcuni anni per difendere quelle bellezze dal vandalismo edilizio e da ogni mira di speculazione. Penso che sull'intelligente iniziativa dei pugliesi sarebbe il caso di meditare. Per poi imitarla. Potrebbe rivelarsi di estrema utilità. Ne sono convinto.
E con questo vi ringrazio di avermi pazientemente ascoltato.

L'alto della Torre dell'orologio di Manciano
una volta