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I libri
Tiburzi, il brigante



Storia romanzata

Stampa Alternativa,
Strade bianche della scrittura 18
Viterbo (2006)

Illustrazioni di Carlo Chiostri

pag. 118


XVIII

ue pesi e due misure, per gl'imputati del "processone": i padroni della Maremma restituiti dopo qualche finzione punitiva alle loro famiglie, ai loro palazzi, alle loro cacce predilette con nugoli di teste coronate; i poveri cristi gettati a patire le pene dell'inferno nelle galere di Viterbo e di Soriano nel Cimino. Eppure, se gli uni e gli altri avevano favorito i briganti, i più colpevoli erano i padroni della Maremma, che per difendere se stessi e le loro proprietà avevano stretto un patto di collaborazione con Domenico Tiburzi. Inoltre, qual era il risultato ottenuto dal processo che aveva messo in ginocchio centinaia di misere famiglie, sperperato somme ingenti, frugato nelle vergogne di molti per darle in pasto all'opinione pubblica attraverso le cronache giornalistiche della stampa locale e nazionale? Nessuno.
Una cosa erano riusciti a fare: anziché catturare Tiburzi, avevano talmente ingrandito la sua fama che per alcune volte, in quello stesso anno del processo, Roma fu inondata di manifesti inneggianti al «venerando abitatore delle macchie». "Domenico Tiburzi candidato al Parlamento Nazionale" titolavano quei fogli zeppi di accuse per la classe politica che aveva ridotto la Capitale «un vulcano di fango» e dalla quale – vi si leggeva – «non giunge parola che non suoni furto, borseggio, fallimento, rapina, grassazione, delitto».
Si alludeva allo scandalo della Banca Romana, a causa del quale il governo Giolitti fu travolto e nel novembre di quel 1893 costretto a dimettersi. Per cui, lo statista di Mondovì, che tanto si era accalorato nel dibattito parlamentare sulla necessità di porre fine nel circondario di Viterbo alla latitanza dei «malviventi che scorrazzano liberamente da vent'anni», dovette ammettere anche in questo campo il fallimento del suo esecutivo.
Tiburzi e Fioravanti, ora insieme, ora separati, cercarono in quel periodo di bufera giudiziaria abbattutasi sui loro favoreggiatori di trovare rifugi sicuri lontano dalla Maremma. Dopo aver girovagato per qualche tempo nei sobborghi di Roma, decisero di assicurarsi una maggiore tranquillità oltre confine. Emigrarono in Francia, non prima di aver sottoposto i loro volti a un leggero maquillage. Di denari disponevano a sufficienza, soprattutto Domenichino che, intuite le intenzioni della giustizia, si era affrettato a ritirarli dal suo "depositario" Francesco Pecorelli, poi tratto in arresto.
Alloggiando a Nizza, ad Antibes, a Cannes in locali di second'ordine che nulla chiedevano ai clienti se non il prezzo dell'ospitalità, i due per un anno e dieci mesi si dettero alla bella vita. Vagabondavano nelle osterie, frequentavano i lupanari; nella bella stagione trascorrevano giornate intere a crogiolarsi sulle spiagge in compagnia di femmine compiacenti che sceglievano fra le non rare connazionali. Fioravanti era un bell'uomo. Trentacinque anni, un metro e settanta di altezza, baffetti castani sotto un naso regolare, viso tondo, colorito rosso-bruno, aveva dalla sua una prestanza e una vitalità giovanile che piacevano alle donne. Tiburzi, dal canto suo, non portava male le cinquantasette primavere che gli pesavano sulle spalle. Fissato nella cura della persona, vestiva con misurato buon gusto e faceva in modo che i baffi e la corta barba brizzolata fossero sempre tagliati e pettinati a dovere
[...] Alla lunga, essendo rimasti a corto di denari, ritennero giunta l'ora di sloggiare dai lidi francesi.
Verso la fine di novembre del 1895, si lasciarono alle spalle quel mondo estraneo alla loro natura; e tornarono nel regno delle macchie e delle praterie per riannodare il filo di un destino al quale non potevano sottrarsi. Scesero dal treno alla stazione di Nunziatella; e per una strada sconnessa raggiunsero dopo qualche chilometro, sul Poggio delle Forane, la casetta di Nazzareno Franci, contadino del senatore Giovan Battista Collacchioni.

[...]