Quaranta stuzzicanti storie di donne, da Matilde di
Canossa alla compagna del “Robinson di Giannutri”. Amore e
odio, tradimenti e vendette, intrighi e meschinità alla
corte dei Medici e delle loro parentele dinastiche.
Editrice Laurum
Pitigliano (GR), 2006
In copertina: Domenico di Tommaso Bigordi, detto il
Ghirlandaio, «Storie del Battista. Visitazione»
(particolare)
pag. 41
ELENA,
LA STREGA DI TRAVALE
l fenomeno della stregoneria ha riempito di sé i secoli
più o meno bui della Maremma. E, a ben riflettere, è stato
un fenomeno che ha accentuato il disagio enorme in cui
questa terra è stata costretta a dibattersi a causa di un
numero incredibile di condizioni avverse: il latifondo, le
paludi, la malaria, il deserto demografico, la carenza
delle vie di comunicazione e l’arretratezza di quelle
esistenti, le guerre fra i pochi signori che dominavano il
territorio e fra questi e Siena, Pisa, Orvieto; le
disastrose incursioni della pirateria saracena, le “guerre
di Maremma” nel contesto di quelle fra Fiorentini e
Spagnoli da una parte e Senesi e Francesi dall’altra; le
pestilenze, le alluvioni, le invasioni di cavallette,
l’abbandono dei figli, l’alto tasso di mortalità infantile
e di efferatezze omicidiali fra consanguinei, la
diffusissima criminalità comune, il brigantaggio; e chi
più ne ha più ne metta. Tutto questo – in una collettività
abbandonata a se stessa, misera, analfabeta, disperata –
non poteva non indurre il popolino ad affidare i suoi
risentimenti, i suoi rancori, le sue vendette, le sue
aspettative di una vita migliore a chi prometteva di
dargli soddisfazione. [...] E infatti erano in molti a non
resistere. In poco più di centoventi anni, a Siena e nel
suo territorio, fra la fine del XVI e gl’inizi del XVIII
secolo, furono ben 3330 gl’inquisiti per maleficium
statisticamente accertati, come si apprende dal volume Inquisizione,
stregoneria, medicina. Siena e il suo Stato (1580-1721)
di Oscar Di Simplicio. Senza contare, pertanto,
quelli che riuscirono a farla franca, a sottrarsi alla
severità della “giustizia” clericale che, specialmente
contro le donne, era feroce, spietata, al punto tale da
ucciderle a decine di migliaia. «Quante morirono è
difficile dirlo. C’è chi parla di 70mila, chi di 300mila e
sono ancora stime prudenti. – si legge nel volume Il
libro nero del Cristianesimo di Jacopo Fo, Sergio
Tomat e Laura Malucelli (Edizione Nuovi Mondi 2000) – Di
sicuro qualche milione di persone fu messo a tortura,
incarcerato, spogliato di ogni avere…».
Per quanto riguarda la Maremma, il libro di Oscar Di
Simplicio fa ritenere che nel periodo sopra citato i
maggiori focolai di stregoneria fossero, in ordine
decrescente, a Sovana, Abbadia Ardenga e Gerfalco. Il
primato di Sovana si può capire se si pone in relazione al
momento di particolare decadenza che la località stava
vivendo, tanto da indurre il governo mediceo a
trasferirvi, nel 1645, numerose famiglie greche della
provincia di Maina, nella Morea, le quali – nel 1690 –
erano rappresentate da cento persone delle centoventi di
cui la “Città di Geremia” disponeva, in una confusione di
fedi religiose che alimentava il disorientamento popolare.
Ma erano un po’ tutti così – disorientati – i paesi della
Maremma misera e ostile, dove sembrava che Cristo si fosse
fermato altrove, lontanissimo, lasciando che Satana – con
i suoi maghi, le sue fattucchiere, le sue streghe – vi
prendesse campo e vi esercitasse il suo incontrastato
dominio.
Travale, una manciata di case arrampicate sui monti delle
Cornate, a un tiro di schioppo da Gerfalco, era uno di
questi grumi di umanità, forse più in sofferenza degli
altri a causa della ininterrotta solitudine che lo legava
più alle streghe – appunto – che al mondo civile. E qui,
nel 1423, ce n’era una – di streghe – che tutti
conoscevano per le sue rinomate prestazioni, per i suoi
incantesimi, per il suo saper fare il bello ed il cattivo
tempo (è proprio il caso di dirlo), per le sue pratiche
religiose finalizzate sia al male che al bene. La
conosceva pure San Bernardino da Siena, che alla lotta
contro le streghe si dedicò con grande impegno e severità;
e che, durante le sue predicazioni, fece nomi e cognomi
delle donne al servizio del demonio, permettendo che
queste fossero processate e condannate non di rado alla
pena capitale, come accadde, nella città di Todi, a
Matteuccia di Francesco (Mactheutia Francisci) che nel
1428 fu arsa sul rogo.
La conosceva bene, quella travalina, San Bernardino: tanto
bene che – durante un ciclo di prediche tenuto a Siena –
inveì contro tutti coloro che andavano dalla
«’ncantatrice» di Travale. E fu probabilmente anche per la
pubblicità fattale dal frate massetano (il santo
Albizzeschi era nato a Massa Marittima), che un giorno la
strega Elena fu portata davanti al Tribunale Ecclesiastico
di Volterra.
La storia di questa poveretta – ché tale doveva essere,
nonostante tutto – è stata sviscerata da una giovane
studiosa di Castelnuovo Val di Cecina: Clara Ghirlandini.
Ed è dal suo lavoro, molto accurato e interessante,
scritto con prosa dòtta, ma chiara e piacevole – La
«’ncantatrice a Travale». Un processo per maleficium
nella Diocesi di Volterra (1423) , pubblicato nel
2001 dalla “Rivista Volterrana” dell’Accademia dei Sepolti
– che abbiamo tratto le notizie relative al suo processo
celebrato il 12 giugno del 1423 davanti ad Antonio
Michelotti da Perugia, vicario del vescovo Stefano di Geri
del Buono da Prato, e al notaio Ottaviano di Iacopo di
Taviano Vermicelli da Volterra.
L’accusa che le venne mossa fu quella di nuocere, con le
sue pratiche superstiziose, alle persone, ai raccolti e al
bestiame. Un’accusa, insomma, che si configurava nel maleficium.
Elena, che era la moglie di Nanni detto Sertino, allo
scopo di evitare il rigoroso esame, ossia la tortura, si
dichiarò spontaneamente colpevole. E raccontò come,
durante le sue prestazioni di fattucchiera, oltre al
demonio, invocasse – talvolta – anche Dio e la Madonna,
cosa che la Chiesa condannava con severità, perché la
pretesa di portare a compimento riti magici con la
protezione divina era considerata una grave eresia. I riti
erano accompagnati dalla recitazione di frasi e
dall’esecuzione di gesti chissà da quali remote e
misteriose fonti scaturite e giunte fino a lei, alla sua
cognizione di popolana retrograda e totalmente analfabeta;
anche se qualche “sapere” le derivava dalla cultura
scientifica e letteraria del suo tempo, o dei secoli
immediatamente precedenti, come la polvere delle rondini
che veniva usata in medicina per curare le malattie degli
occhi, o come l’utilizzazione del pane e del formaggio per
smascherare un ladro ricordata dal Boccaccio nell’ottavo
libro del Decameron (sesta novella), là dove fa dire a
Buffalmacco: «…io so fare l’esperienza del pane e del
formaggio e vederemmo di botto chi l’ha avuto»,
riferendosi al porco rubato a Calandrino».
Per indurre qualcuno a presentarsi al suo cospetto diceva,
ad esempio: «Domino o donna manda chotale a me»: parole
che – allo scopo di raggiungere un risultato positivo –
doveva ripetere per cinque domeniche consecutive.
I poteri che Elena vantava di possedere erano molti:
riconoscere un individuo posseduto dal demonio
(“spiritato”); provocare il cattivo tempo (malum tempus);
smascherare l’autore di un furto; suscitare sentimenti
d’amore e d’odio fra due persone; liberare un prigioniero
dal carcere; far impazzire la vittima designata, farla
cadere gravemente ammalata o farla morire; procurare
l’aborto; ed altri ancora. Naturalmente, ad ogni tipo di
prestazione corrispondeva uno specifico rituale. Vediamone
alcuni, fra i più interessanti. Per far impazzire
immediatamente una persona, le faceva mangiare «della fava
inversa». [...]
Per verificare se qualcuno era posseduto dal demonio,
Elena misurava tre spanne della cintura di costui;
invocava poi Gesù affinché lo difendesse «da ogni strega,
da ogni spirito dannato e da ogni malia che gli potesse
nuocere». Qualora, dopo il rito, la lunghezza della
porzione di cintura precedentemente misurata fosse stata
maggiore, si doveva dedurre che la persona presa in esame
era «spiritata», ossia posseduta dagli spiriti demoniaci.
Tutti questi particolari la «’ncantatrice» di Travale li
raccontò agli inquisitori, confessando, dunque, di aver
praticato assiduamente la stregoneria fra gli abitanti del
paese e fra quelli dei territori circonvicini attratti
dalla fama e dalla popolarità che era riuscita a
conquistare. Rispetto ad altre streghe, forse meno note di
lei, che erano state arse sul rogo, come la citata
Matteuccia di Francesco da Todi, Elena fu comunque
condannata a pene – tutto sommato – sopportabili, se si
considera il rigore dei tribunali ecclesiastici nei
confronti delle maghe e delle fattucchiere. Le furono
infatti comminate una pena pecuniaria di cinquanta fiorini
d’oro, l’esposizione per quattr’ore sulla piazza
principale di Volterra con in testa la mitria ereticale,
la confisca dei beni e l’espulsione da tutto il territorio
della diocesi. L’esito della sentenza fu comunicato alla
donna il 15 giugno 1423.
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