Con Lilio Niccolai
Alfio Cavoli, «Paese mio nativo»
Lilio Niccolai, «Abito qui da sempre»
Foto di:
Romano Ballerini (Manciano),
Boero Bellezzi (Manciano),
Lorenzo Adolfo Denci (Pitigliano),
Fratelli Gori (Grosseto),
Archivio Dottor Antonio Ciacci (Saturnia).
In copertina disegno
di Lucio Parigi
Gruppo Poligrafico Editoriale,
San Marino (1970)
pag. 23
[...]
'estate
era incredibilmente sonora di cicale.
Perdura in me, soffuso di grande nostalgia, il ricordo di
quel loro incessante, pazzo frinire, di quei loro tremuli
scricchi.
Quando penso alle lontane estati della mia giovinezza, la
memoria si richiama subito alle immagini e ai vibranti
cori di quei piccoli esseri vagabondi.
Ne rivedo brulicare le canne nella vigna di mio nonno
Lorenzo, lassù, nel solatìo poggio del Monte; le querce
fitte e nere, che facevano spicco fra le messi e le
stoppie luminose; i peri innestati da mio padre, abile
quant'altri mai nel rendere domestici i selvaggi arbusti
del podere, in mezzo ai marrucheti e alle sassaie
del campo dei Pozzuoli. E ne riascolto il monotono verso
(canto? Lamento?) che incideva profondamente, a ritmo
sempre uguale, i silenzi delle solitudini agresti nutrite
di vergini, primordiali profumi.
Le cicale... Il loro continuo rarefarsi (in qualche luogo
la loro scomparsa) è uno dei tanti segni, e non certo il
meno significativo, della Maremma perduta, della
Maremma-poesia che si spoglia, a poco a poco, del suo
fascino antico.
Un altro punto fermo nel ricordo di quei mesi ardenti
(ardenti di sole e di giovinezza) è la discesa dei
mietitori dalla vicina montagna amiatina e, spesso, dal
lontano, desolato Casentino, da Caprese, da Badia Tedalda,
da Casteldelci.
Giungevano in piccole e grandi comitive, le canottiere di
lana di pecora intrise di sudore, i calzoni di fustagno
rattoppati, le scarpe grosse imbullettate.
Avevano facce smunte e tirate, indelebilmente tinte
dall'avvicendarsi dei freddi e delle calure. Portavano a
tracolla un fagotto con qualche straccio da indossare e,
appesa al gancio della cintura, dietro la vita, una falce
dalla lama fasciata con strisce di stoffa. Si fermavano
alla trattoria di Regolato, davanti all'officina del
povero Talete, in via Marsala, e concedevano allo stomaco
un pezzo di pane, una sardella cavata lì per lì dal
barilotto, e un bicchiere di vino. [...]
Sorridevano anche, ricordo; ma i loro volti erano tesi,
solcati da rughe ampie e profonde; e i loro occhi non
avevano luce di gioia: anzi, parevano affogati in un
fluido di tristezza.
Quando li vedevo incamminarsi sulla strada polverosa che
scendeva alla pianura, dentro di me succedeva qualcosa,
non saprei dire che cosa.
Erano, forse, quella loro rozza canottiera di lana
inzuppata di sudore, quel berrettaccio portato a
sghimbescio, quei vecchi, larghi e rammendati calzoni,
quel fagotto e quella falce; erano, forse, tutti insieme,
quei simboli di povertà e di sofferenza (la stessa povertà
e sofferenza, in fondo, dei miei genitori e dei miei
vecchi nonni) che suscitavano nel mio animo una specie di
angoscia, una sorta dis ordo tormento. [...]
Uomini forti, quelli, come ciocchi d'erica.
Dopo una settimana di mietitura sotto la sferza del sole,
avevano, per dirla con Guelfo Civinini, «... un viso
scarnito color delle melecotte, certe mani secche che
parevan di legno...». Immagini, le loro, che non si
possono dimenticare: il dorso nudo, il cappello di paglia
imbottito di foglie di quercia per meglio resistere alla
calura; le dita di una mano difese contro i pericoli della
falce da involucri di canna; il corno di bue appeso alla
cintura, con dentro immersa nell'acqua, la pietra per
arrotare.
Come non si può dimenticare, del resto, l'eco dei loro
malinconici canti e del loro corale grido d'allegrezza
quando l'ultimo mannello di spighe cedeva alle lame
lucenti delle falci: «Viva Maria!», «Viva Maria!».
[...]
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